Il 24 giugno 1566 Ferrante Gonzaga, principe dell’Impero e marchese di Castiglione, concluse l’accordo di matrimonio con la dama di compagnia della regina Isabella di Valois, Marta Tana di Santena di Chieri, figlia del barone Baldassarre e di Anna della Rovere, cugina del cardinale Gerolamo, vescovo di Torino. Il matrimonio, testimoni il Re e la Regina di Spagna, fu il primo celebrato secondo i canoni del Concilio di Trento.
Il 9 marzo 1568 nacque Luigi, il primogenito. Il parto non si presentò facile. Il marchese raccomandò che si salvassero almeno la vita della puerpera e l’anima della creatura. Nulla più potendo fare i medici, Marta fece voto di andare alla Santa casa di Loreto assieme al figlio, se fosse sopravvissuto. Fatto il voto, il parto giunse a termine senza più nessun pericolo. La levatrice, su insistenza del marchese, lo battezzò. Qualche giorno più tardi il marchese comunicò al duca di Mantova, capo di casa Gonzaga, il nome del figlio: ”Ringracio V.S. de la contentezza mostra haver sentito del figliol d’Aloisio e lui se vivrà si chiamerà Aluigi”.
Il 20 aprile del 1568 si rinnovò l’allegria della nascita per la celebrazione del battesimo solenne. La cerimonia si tenne nella chiesa parrocchiale dei santi Nazario e Celso. Officiante fu l’arciprete don Giovan Battista Pastorio, che nel libro dei battesimi scrisse (in latino), accanto al nome di Aluigi: ”Sia felice e viva in eterno, caro a Dio, tre volte ottimo e massimo, e agli uomini”. Padrini al battesimo furono Guglielmo, duca di Mantova e Ippolita Maggi, moglie di Alfonso Gonzaga, marchese di Castelgofredo e fratello di Ferrante. Non potendo partecipare, Guglielmo si fece rappresentare da Prospero Gonzaga, cugino suo e di Ferrante. “Io mando il s.r Prospero Gonzaga da V. S. che sarà portatore di questa perché egli tenga in mio nome al sacro fonte il figliolo natole, al quale prego Iddio che dia lunga et felice vita, et a me occasione di potermi adoperare a beneficio et commodo suo, come io sono prontissimo di fare anco per V.S. et per la signora sua consorte”.
Del convento di Santa Maria, costruito su una probabile fonte etrusca e sicuramente sui resti di una villa romana, oggi rimane solo un’ala. La gente si dirigeva numerosa verso il convento di S, Maria. In quel giorno era tornato al convento un vecchio frate, molto pio, al quale si attribuiva il potere di esorcizzare. Quel pomeriggio, infatti, doveva esorcizzare un povero ossesso, che da tempo riempiva di terrore e di urla il paese.
Fra la gente che camminava c’erano ragazzi chiassosi, vecchi affaticati e madri pensose. Giungeva anche una carrozza, con l’aquila imperiale nello stemma dei Gonzaga, tirata da cavalli focosi. All’interno i piccoli Luigi e Rodolfo col loro precettore, Pier Francesco del Turco. La chiesa era piena di gente. Luigi e Rodolfo vennero condotti sulle sedie dorate della tribuna, fra i notabili. Il vecchio frate iniziò gli esorcismi. Davanti all’indemoniato, ordinò allo spirito malvagio di lasciare quel corpo. L’ossesso emetteva urla e grida rabbiose, si rotolava sulle pietre del pavimento bestemmiando contro la potenza che lo costringeva ad abbandonare il corpo. Ad un tratto, alzatosi in piedi e volgendosi verso la tribuna, puntò il dito su Luigi, gridando: ”Vedete là?” “Vedetelo!” “Vedetelo dunque! Egli andrà in Cielo, e grande gloria vi avrà!” Detto questo l’ossesso si abbatté ancora sul pavimento e il demonio lasciò finalmente libero quel giovane.
Nei primi mesi del 1573, Filippo II aveva ordinato a Ferrante Gonzaga, conferendogli il grado di colonnello, di addestrare 3.000 fanti per l’impresa di Tunisi. Con i suoi uomini pronti a combattere avrebbe dovuto recarsi a Messina per sottomettersi agli ordini di don Giovanni d’Austria, vincitore della battaglia di Lepanto.
Forse per stare un po’ più a lungo col primogenito, ma anche per abituarlo al suo futuro ruolo di marchese e uomo d’armi, Ferrante portò con sé Luigi, che compiva allora solo cinque anni. Il piccolo imparò ben presto a maneggiare piccole armi come fossero giocattoli.
Luigi dimostrava attitudine alla vita militare e alle armi. Un giorno, sparando con il suo piccolo archibugio, si bruciacchiò la faccia. In un pomeriggio, particolarmente caldo e afoso, mentre le truppe e gli ufficiali dormivano, Luigi decise di mettere alla prova la sua bravura di artigliere. Prese dalle fiasche dei soldati della polvere da sparo e con questa caricò, anche se con difficoltà, una colubrina. Il rinculo dello sparo quasi travolse Luigi.
Di colpo la rocca si animò. Ferrante si allarmò, temendo una sommossa o un attacco a sorpresa. Con stupore scoprì il figlio, ancora presso il cannone che stava per schiacciarlo. A questo punto l’orgoglio del padre si trasformò in rabbia. Essendo considerato Luigi un ufficiale a tutti gli effetti, decise di punirlo. Ma grazie all’intercessione di soldati e ufficiali, la punizione non venne mai eseguita.
Verso la fine del 1577, Ferrante Gonzaga, dopo un periodo trascorso nel Monferrato, decise di andare ai Bagni di Lucca, nella speranza che le acque termali di quel luogo alleviassero il dolore causatogli dalla gotta, male di cui soffriva spesso. Il viaggio divenne occasione per accompagnare i figli Luigi e Rodolfo alla corte dei Medici, a Firenze. Con il granduca di Toscana, Francesco de Medici, Ferrante era stato paggio e cameriere, a Madrid, di Filippo II. Era nata così un’amicizia che si era mantenuta anche con il ritorno in Italia. Anche su consiglio della madre, esperta conoscitrice delle corti, i figli vennero alloggiati in una casa privata, non lontano da palazzo Pitti. Luigi si fermò a Firenze due anni, dal settembre 1577 al novembre 1579. Questo periodo trascorse fra gli impegni a corte, i giochi con le figlie del granduca, gli studi e la visita ai luoghi della città.
Luigi scriveva spesso a casa. Dalle sue lettere traspariva già la maturità di chi doveva abituarsi alla politica e al governo. Il precettore Pier Francesco del Turco, originario di Fiesole, accompagnò volentieri i due ragazzi a visitare la “sua” città e non poté non notare la preferenza in Luigi per la sosta nelle chiese. In quei luoghi la pace e il silenzio gli permettevano di pregare e meditare. Poiché spettava a Luigi la scelta dell’itinerario religioso, due chiese in particolare erano da lui preferite: la Santissima Annunziata e San Giovannino.
La chiesa della Santissima Annunziata custodiva un dipinto che la tradizione vuole terminato da un angelo (il volto della Madonna). Questa chiesa era ben presente nella mente di Luigi perché il suo avo, Ludovico II marchese di Mantova, aveva donato 2.000 ducati per la costruzione dell’abside. Nel contemplare il volto santo, Luigi ripensò ai tanti doni che nobili e non, in ogni tempo, avevano fatto al dipinto del volto. Egli, invece, non possedeva né oro né argento ma aveva già una strada da percorrere, aveva un “tesoro” suo da offrire, lo stesso che era stato consegnato da Maria. Un mattino quindi, nel silenzio della chiesa, fece voto alla Vergine di “perpetua castità”.
Dopo il periodo trascorso a Firenze e sette mesi alla corte di Mantova, Luigi e Rodolfo ritornarono a Castiglione. Luigi pareva dimagrito e deperito. A Mantova aveva contratto una malattia ai reni: cistite o calcoli. Fra le cure prescritte dai medici vi era il digiuno. Luigi lo seguì scrupolosamente e, una volta guarito, ne approfittò per continuarlo come forma di penitenza. A Castiglione Luigi dal maggio al settembre 1580, accrebbe il suo distacco dal mondo per dedicarsi maggiormente alla preghiera orale e mentale.
Passava ore chiuso nella sua camera; i domestici lo vedevano spesso con le braccia alzate o incrociate sul petto, gli occhi chiusi o fissi sul crocifisso, perfettamente immobile, ignaro della loro presenza. Si sparse la voce circa questo suo strano isolarsi in preghiera e Luigi divenne oggetto di grande curiosità e meraviglia. Si arrivò anche a cercare, o praticare, fessure nella porta per poterlo vedere. Alcune volte, agli stessi ospiti del castello, i servi facevano vedere il giovane principe completamente immerso in Dio ed essi ne rimanevano ammirati.
Alcuni capivano, altri deridevano un simile comportamento. Questo amore verso Dio e il prossimo traspariva anche nel suo modo di vivere: egli infatti mostrava cortesia, padronanza di sé e carità verso tutti. Non dava ordini, chiedeva con gentilezza; se gli capitava di assistere a litigi o di udire bestemmie o parole di rabbia, con delicatezza ammoniva o rimproverava.
Questo periodo di maturazione nella sua vita di fede in Dio ebbe il suo culmine in luglio, durante la visita pastorale di San Carlo Borromeo alla parrocchia di Castiglione, che allora faceva parte della diocesi di Brescia. Il cardinale era stato nominato visitatore apostolico da Gregorio XIII. La visita diventò occasione di festa: il clero preparò accoglienze solenni, il popolo partecipò numeroso alle funzioni. La famiglia Gonzaga chiese di ospitare nel suo palazzo il cardinale, ma questi, fedele al suo stile di povertà, preferì accogliere l’ospitalità dell’arciprete.
San Carlo doveva già essere stato informato del particolare stile di vita del piccolo marchese. Quando avvenne l’incontro, il colloquio si indirizzò presto sulle verità della fede e su argomenti spirituali. Luigi ebbe modo così di confidare al prelato le difficoltà e i dubbi sul proprio stile di vita e sul come interpretare il volere di Dio.
San Carlo, saputo che Luigi non aveva ancora ricevuto la prima Comunione, decise di dargliela lui stesso. Così uno dei momenti più desiderati, giunse a Luigi quasi per miracolo: il 22 luglio 1580, nella chiesa dei santi Nazario e Celso.
Luigi riceveva dal santo cardinale, per la prima volta, il corpo di Cristo, con grande gioia sua e di tutti i presenti.
L’anno seguente, verso la fine di settembre del 1580, il duca Guglielmo di Mantova volle con sé a Casale, oltre a Ferrante, anche Luigi e Rodolfo che nel frattempo avevano fatto ritorno a Castiglione. Luigi in questo viaggio rischiò di perdere la vita perché la carrozza su cui viaggiava, giunti nel mezzo della corrente, si spezzò in due. La parte anteriore, dove era seduto Rodolfo, trascinata dai cavalli, giunse all’altra riva. L’altra metà, dove erano Luigi e il precettore Pier Francesco del Turco, rimase in balia della corrente. Un provvidenziale tronco d’albero impedì alla carrozza di rovesciarsi e di essere trascinata via. Due uomini del posto accorsero, raggiunsero i due “naufraghi” e, caricatili a cavallo, li portarono in salvo. La notizia dell’incidente giunse a Ferrante che, in preda all’ansia, decise di mandare dei servitori a portare aiuto.
Finalmente tutta la famiglia in salute ritrovò serenità. Per i divertimenti, i tornei e le feste popolari, Luigi cercò di evitarli il più possibile. Gli studi e la poca salute furono un ottimo pretesto. Spesso, con la complicità della madre o di chi l’accompagnava, dopo aver presenziato all’inizio della serata, se ne allontanava, per poi ricomparire al momento di rientrare a palazzo. In questo periodo ebbe modo di frequentare due conventi: quello dei Barnabiti e quello dei Cappuccini. Da queste frequentazioni nacque la decisione di entrare “in qualche religione nella quale, oltre al voto fatto di verginità, potesse anche osservare quello dell’obbedienza e della povertà evangelica”.
A quel tempo una grande e coraggiosa nobildonna decise di recarsi dalla sua corte di Praga a quella di Madrid. Era Maria d’Asburgo, Figlia di Carlo V, Vedova di Massimiliano II imperatore, Madre del futuro imperatore Rodolfo II, Sorella e Suocera del re di Spagna Filippo II e, giusto per mantenere tutti i contatti, Suocera del re di Francia Carlo IX. Tutta la nobiltà di diritto imperiale era invitata ad unirsi al seguito di un così grande personaggio, anche i Gonzaga. Ferrante aderì all’invito, attento com’era a cogliere ogni occasione opportuna ad introdurre i propri figli nella corte spagnola.
Il corteo venne raggiunto a Padova il 26 settembre 1581. Da quella città, attraverso Vicenza, Verona, Brescia e Pavia giunse a Genova il 16 ottobre. Nelle varie tappe l’imperatrice ebbe modo di apprezzare la maturità e la serietà del giovanissimo principe Luigi. Il corteo arrivò a Madrid i primi giorni di marzo 1582. Qui vennero nominati paggi di don Diego, figlio di Filippo II ed erede al trono di Spagna.
A Madrid Luigi proseguì gli studi.
Luigi svolse ogni giorno anche il compito di paggio di corte addetto al principino don Diego. L’essere al servizio di un così futuro potente personaggio non impedì a Luigi di essere coerente con se stesso. Un episodio restò indicativo: al vento che gli scompigliava i capelli, don Diego ordinò: “Vento, ti comando di fermarti!...”. Pronta fu la risposta di Luigi: “Può bene Vostra Altezza comandare agli uomini che l’ubbidiranno, ma i venti ubbidiscono a Dio, al quale ha da ubbidire anche vostra Altezza.”
Impensabile, a quell’epoca, riprendere l’erede al trono del regno più potente. Questa “iniezione” di umiltà fu riferita al re, che ne rimase contento. Abituato ad essere sempre servito ed accontentato in tutto, a don Diego potevano nascere manie di onnipotenza. Una frecciatina ogni tanto non faceva male.
Un altro episodio mostrò le grandi capacità di Luigi. Si doveva incaricare un nobile della corte di porgere il saluto, con un componimento, a Filippo II, di ritorno dal Portogallo dove era stato incoronato re. A svolgere questo compito venne scelto Luigi, che il 29 marzo 1583 compose e recitò in latino il discorso di benvenuto.
In Spagna Luigi prese la decisione definitiva di entrare in un ordine religioso, e scelse quello dei Gesuiti, per due motivi principali: la recente costituzione dell’ordine e la proibizione di ricevere cariche di qualsiasi tipo. Al padre che gli chiedeva di entrare in un altro ordine, per poter diventare almeno vescovo, il figlio rispose: “Se volessi degli onori, mi terrei il marchesato, non lascerei certamente il certo per l’incerto”.
Da Madrid in poi cominciò una “lotta” serrata fra il padre che non voleva dare il consenso ed il figlio. Ferrante ricorse a ogni espediente per far recedere il figlio dalla decisione. Per evitare uno scandalo, Ferrante aveva promesso che avrebbe dato il suo consenso una volta giunti in Italia. Il 22 luglio 1584 i Gonzaga rientrarono a Castiglione, ma, anziché il tanto atteso consenso, a Luigi venne chiesto di recarsi nelle corti amiche dei Gonzaga per conoscerle e salutarle prima di entrare in religione.
Luigi si presentò sempre nelle varie corti vestito di saio nero, privo di ornamenti, come un religioso. Rodolfo invece lo seguiva indossando splendidi abiti. Ritornato dal “viaggio dei saluti”, Luigi sperò che il padre finalmente concedesse il benestare. Ma Ferrante non ne aveva alcuna intenzione. Al posto dell’assenso, Ferrante studiò nuovi stratagemmi per procrastinare la decisione e cercò nuovi alleati. Infermo per il solito attacco di gotta, Ferrante rifletté sul futuro del marchesato. Da qualunque parte si guardasse, quel futuro sembrava avere un solo nome: Luigi. Il marchese fece quindi chiamare il figlio e gli chiese quali fossero le sue intenzioni per l’avvenire. Risposta scontata, il suo pensiero “era e sempre era stato di servire Dio nella religione già detta” (Gesuiti).
A questa risposta, in tono molto arrabbiato, Ferrante ordinò a Luigi di “levarsi dai piedi”. Quasi automaticamente Luigi uscì dal castello e si diresse verso un luogo a lui caro fin da piccolo: il convento di S. Maria. Per alcuni giorni, fattosi portare letto ed effetti personali, Luigi pregò, pianse, digiunò condivise la vita di quei frati zoccolanti, fino a quando non venne richiamato dal padre.
Un imprevisto interruppe la “lotta” fra Luigi e il padre. Il marchese aveva affari urgenti da sbrigare a Milano, ma ne era impedito dalla gotta. Decise così di affidare al figlio l’incombenza. La permanenza a Milano che si pensava durasse qualche giorno si protrasse per 8 mesi, dalla fine del 1584 al 1585. In questo periodo Luigi dispose di molto tempo libero, che gli permise di seguire i corsi del collegio gesuitico di Brera. Dato che in Spagna aveva già studiato logica, a Milano perfezionò la fisica. La frequentazione del collegio diventò anche una prova per le sue capacità sia intellettuali che di adattamento. Luigi, infatti, dovette integrarsi con una scolaresca già organizzata dai corsi precedenti, unita e compatta. Ebbe anche modo di conoscere meglio l’ordine dei Gesuiti, frequentati negli ultimi anni solo in poche occasioni. Il futuro religioso era così attratto dall’ordine che nei giorni festivi, quando non c’era scuola, voleva ugualmente frequentare il collegio gesuitico.
Ottenuto il consenso paterno ad entrare nella Compagnia di Gesù, dopo la cerimonia di rinuncia, svoltasi alla presenza di tutta la parentela nel palazzo di san Sebastiano a Mantova, era previsto il pranzo. Luigi si era allontanato dalla sala; vi tornò, quando tutti erano già a tavola, vestito della nera tonaca dei gesuiti. Come se solo allora prendessero coscienza di quanto era accaduto, i parenti tutti ammutolirono, anche coloro che prima non avevano mancato di rivolgere sorrisini ironici e battute pungenti al giovane parente; il quale, da parte sua, apparve sereno e gioviale come non l'avevano visto mai. Era il 2 novembre 1585; dopo qualche mese avrebbe compiuto 18 anni. Luigi rinunciò anche ad una cospicua rendita che il padre voleva gli fosse riservata.
Due giorni dopo partì alla volta di Roma, per iniziare il periodo del noviziato. Ad uno che gli disse: «Il signor Rodolfo vostro fratello avrà sentito grande allegrezza nel succedere al vostro stato», rispose: «Mai quanto la mia nel rinunciarvi!»
Il 25 novembre 1585, nella festa di santa Caterina, Luigi iniziò il noviziato, il periodo di formazione religiosa della durata di due anni, necessario per verificare la solidità della vocazione. Si spogliò del ricco corredo. con cui era giunto in Roma, manifestando anche un questo l’intenzione di abolire per sé ogni privilegio e condurre una vita uguale, in tutto, a quella degli altri religiosi. Attese con rinnovato impegno agli studi, nei quali era più avanti dei compagni. Soprattutto si dedicò ad una pratica che aveva ancora poco esercitato: il servizio attivo a favore del prossimo. Allo scadere del periodo di noviziato, il 25 novembre 1587, emise i voti religiosi di povertà, castità ed obbedienza.
Gli anni di studio occuparono Luigi anche per problemi di famiglia. Era a Roma da appena qualche mese, quando d’improvviso morì il padre. Non rientrò in quella occasione, ma si conosce una sua affettuosa lettera di consolazione alla madre. Questo evento porta alla successione il fratello Rodolfo, il quale ben presto rivelò quanto fondate furono le preoccupazioni di don Ferrante al suo riguardo. Troppo giovane per quella carica, di carattere irruente e incapace di misurare le conseguenze dei suoi atti, il nuovo marchese non accettava consigli, seminando a piene mani dolore per la madre e pericoli per lo stato.
Luigi, con i suoi interventi, dimostrò quanta esperienza di mondo avesse accumulato e come sapesse abilmente servirsene. Ancora una volta dimostrò una maturità superiore a quella dell’età anagrafica.
Dopo numerosi viaggi tra Roma e Castiglione, rimossi gli scandali causati dal fratello, Luigi poteva accettare un invito che prima in coscienza gli era parso inopportuno: la madre gli aveva chiesto di tenere una predica in chiesa. La predica fu tenuta nell’oratorio dei Disciplini, accanto alla parrocchiale, ed ebbe per tema l’eucaristica. Ebbe tale effetto che preti e frati passarono tutta la notte a confessare e il mattino seguente si comunicarono più di settecento tra uomini e donne.
Era la domenica di Quinquagesima del 1590. In quei giorni a Castiglione Luigi compì ventidue anni. Tre giorni dopo partì; a casa non sarebbe più tornato.
Luigi dopo un periodo di studio a Milano, ripartì alla volta di Roma, trovandola molto cambiata. L’inverno 1590-91 fu particolarmente difficile per le popolazioni del Lazio. Alla scarsità di cibo si aggiunse l’affollamento dei contadini, scesi in città speranzosi di poter accedere alle scorte che pensavo potessero esservi accumulate. Infine, fece la comparsa il tremendo flagello chiamato peste: il contagiosissimo tifo esantematico. I gesuiti, come altri religiosi, si prodigavano nell’assistenza agli appestati. Per loro occorrevano cibo, medicine e vestiti. Saputo che a Roma si trovava Giovanni De Medici, già suo compagno di giochi quando si trovava a Firenze, Luigi gli si presentò per chiedergli l’elemosina per i poveri. Entrò nel palazzo, con la tonaca rattoppata e la Bisaccia sulle spalle. Giovanni ne fu colpito e l'elemosina superò molto le attese. Aveva scritto anche alla madre e al fratello per chiedere aiuti per i poveri.
Benché i superiori, a motivo della sua debolezza di salute, volessero esentarlo nel servizio ai malati, egli chiese con insistenza di poter prestare servizio presso l'ospedale della Consolazione, vicino al Campidoglio. La mattina del 3 marzo 1591, mentre era in cammino verso l'ospedale, vide steso per terra un appestato che si lamentava. Nonostante sapesse che era contagioso, a fatica lo caricò sulle spalle, lo portò all'ospedale, lo lavò, lo medicò e lo assistette fino a sera. Quando vennero i confratelli per dargli il cambio, fece ritorno al collegio e si mise a letto, con la febbre alta e i segni della pestilenza.
Una settimana dopo, aveva compiuto 23 anni, parve agli estremi; gli fu dato il Viatico e l’Unzione degli Infermi. Ma la sera di quel giorno la febbre violenta si placò. Le settimane trascorsero senza un lamento, con una serenità che edificava i visitatori. Il 10 giugno trovò la forza di dettare una lettera alla madre, nella quale si raccomandava di non piangere. Secondo le parole di San Paolo, scriveva, la carità fa piangere con chi piange e gioire con chi gioisce. Ella, dunque, doveva provare grande gioia per la grazia che Dio gli faceva di condurlo alla gioia senza fine.
Fra le due e le tre di notte del 21 giugno, mentre teneva fatica tra le mani una candela accesa e contemplava il crocifisso, le labbra si fermarono invocando il nome di Gesù.